Lanzavecchia Way

Francesca Lanzavecchia e Hunn Wai

Impossibile arginare la creatività della designer italiana, Francesca Lanzavecchia, e del suo partner di Singapore, Hunn Wai, che condividono il lavoro dal 2010. Sono un po’ lì e un po’ qui. Con la loro ricerca girano il mondo che conquista i marchi più sofisticati, ma non mancano di pensare a un design per tutti, rompendo ogni barriera di pensiero e di funzionalità, sperimentando i materiali.

Siete stati fra i primi designer a trattare il “design for all”, cioè quegli oggetti che pensano alle disabilità permanenti o temporanee o semplicemente a facilitare gesti e movimenti di chi non è più agile per via dell’età. Pensate che la presenza di questi oggetti, studiati anche dal punto di vista estetico, in modo da farli uscire dal mondo “medicale”, abbia contribuito a sensibilizzare le persone a questo tipo di esigenze?
Dalle reazioni che abbiamo suscitato, la cosa strana è stato portarli al SaloneSatellite per il Salone del Mobile! Il “Design for all” è stato il tema del mio corso di laurea alla Design Academy di Eindhoven, che poi abbiamo sviluppato per la collezione No Country for Old Men. Si basa sulla dualità design e bellezza e sull’idea di considerare come complementi d’arredo gli oggetti che facilitano gesti quotidiani e deambulazione. Questo genere di oggetti va a trasformare gli interni domestici, soprattutto delle persone anziane, con forme e materiali poco domestici. Per questo abbiamo sostituito il metallo con il legno e considerato un aspetto che fosse assimilabile ai complementi d’arredo. Gli elementi della collezione sono dei mobili che offrono un aiuto extra. Ma, nonostante il mercato sarebbe pronto ad accoglierli – lo attestano le continue richieste che riceviamo – non lo sono ancora le aziende. Quelle del settore medicale li trova troppo costosi, quelli dell’arredo li trova troppo connotanti. C’è un buco nero identitario. Abbiamo iniziato l’iter della messa in produzione ben cinque volte, ma è poi sempre caduto nel vuoto. Il nostro intento è immaginare come vengono vissute le case reali, e riuscire a entrarci, giocando con il mondo del prodotto.

Molti vostri progetti partono dalla riflessione sul materiale o dalla sperimentazione di una tecnica, anche se si tratta di lavori su committenza e non di ricerca personale. Fra le tecnologie, tradizionali e innovative, e i materiali, naturali o artificiali, provati finora, quali vi hanno appassionato di più?
Mi viene in mente il vetro. È un materiale affascinante, ti sfida a spingerti sempre un po’ più in là e la scommessa è vedere fin dove può sarrivare e dove ti può portare. Certo da parte nostra cerchiamo sempre il giusto punto di incontro fra i nostri sogni e le esigenze del committente.

Quali saranno, secondo voi, i materiali del futuro? Quali valori dovranno rappresentare?
Un altro materiale che ci appassiona è il tessile. Riteniamo che sarà impiegato sempre di più nel futuro. Viviamo in un’epoca di dematerializzazione, dovuta alle strumentazioni tecnologiche, e il bisogno di tattilità, di entrare in contatto con le cose, sarà in crescendo. Stiamo provando a usare il tessile in modo non scontato. Credo che i materiali del futuro non saranno solo quelli sviluppati dalla stampa 3D e dalle nuove frontiere tecnologiche, che sono indubbiamente interessanti e stanno mutando prospettive e applicazioni d’uso. Noi siamo però più inclini a interrogare il passato, i materiali tradizionali e a carpire la conoscenza dagli artigiani che li hanno sempre utilizzati. Per noi questo è il punto di partenza per fare un passo avanti.

Quali sono invece i temi del presente, legati all’abitabilità? In generale, e quelli che voi ritenete utile sviluppare al meglio.
Ci interessa indagare cosa vuol dire invecchiare in una casa. Nella propria casa. È un bisogno attuale e che la società avrà nel futuro. E poi, tutto sta cambiando intorno a noi, ma gli archetipi nelle nostre case non sono mutati. Bisognerebbe rivedere le modalità di interazione che abbiamo con i nostri mobili, come gli oggetti possono seguire i cambiamenti delle nostre abitudini, le nostre posture in relazione agli strumenti che usiamo. Come si vive davvero in casa.

Domanda di rito per noi: cosa ricordate delle vostre partecipazioni al SaloneSatellite? Pur se diverse fra loro – nel 2011, la collezione Fragment Cabinet; l’anno dopo, la collezione No Country for Old Men – giocavano entrambe con la sensorialità e invitavano al gioco. Furono accolte con il medesimo entusiasmo?
Il ricordo più vivo è legato senz’altro al 2012. Come detto la collezione No Country for Old Men destò molta curiosità e interesse. Era una collezione di rottura. In ogni caso fu utile proprio il riscontro ricevuto. Il SaloneSatellite è un campo di prova, nel senso di test di se stessi e del prodotto, e di confronto e di interazione con le persone più diverse: dai giornalisti agli imprenditori agli studenti. Molto utile.

Una domanda per Francesca, metà femminile del duo. Spesso sei annoverata e invitata a partecipare a iniziative e inchieste dedicate alle “donne del design”. Hai anche ricevuto premi sotto questa etichetta. Secondo te alle donne fa bene o male questa demarcazione?
Me lo chiedo anch’io. Ma come tutte le occasioni della vita, che possono fare bene o male, è un’occasione da utilizzare. Bisogna però che sia finalizzata a far emergere una sensibilità, cioè, che non se ne faccia una questione di genere sessuale o, peggio, un trend soggetto poi a tramontare. Suggerisco a tutte le giovani designer di sfruttare l’occasione per tirare fuori le unghie per far emergere il proprio carattere e le proprie capacità creative e possibilità progettuali.